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Giornale d'Italia 1902
Reportage da Boston (USA) della giornalista italo-americana Amy A. Bernardy, nota per essere stata la prima studiosa di costume ad essersi interessata delle vicende degli emigrati italiani in ogni parte del mondo. Spesso critica con le strutture ufficiali dell'emigrazione italiana, ha sempre conbattuto per la dignità al'estero di chi espatriava.

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A lato: scene di vita nella "Piccola Italia" di New York (inizi del '900).

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Lettere dall’America - “Piccola Italia” a Boston
(Il Giornale d'Italia 20 aprile 1900)

Boston, aprile.
Su Hannover Street, la grande arteria che attraversa in tutta la sua lunghezza la Piccola Italia, al n. 219, in convenientissima e centralissima posizione rispetto ai rappresentati, sta la rappresentanza ufficiale d’Italia, il Consolato di S.M. il Re, con tanto di stemma sulla porta, e tanto d’iscrizione bilingue all’ingresso interno. Il Consolato di Boston, com’è naturale, ha meno da fare del Consolato generale di New York; ma con tutto ciò la sua azione non si limita certo a metter fuori la bandiera delle grandi occasioni.Bottega italiana a Little Italy Bisogna vedere il caleidoscopio d’immigrati appena arrivati, d’emigrati che vogliono rimpatriare, di capitani di mare, di rappresentanti di compagnie di navigazione, e quelli che hanno fogli di leva, e quelli che vogliono i certificati per le scuole, e quelli che aspettano la legalizzazione d’una firma, e i “reporters” che chiedono le notizie dell’ultima ora, se succede qualcosa d’importante nel piccolo mondo italiano della North End o nel gran mondo italiano d’oltre mare: è un divertimento, per un eventuale spettatore. Nella prima stanza appena si entra, debitamente adorna dei ritratti dei Reali, “giudica e manda” il segretario del Consolato, un giovanotto svelto e sbrigativo, che noi del “Boston Evening Transcript”, per le sue varie benemerenze, abbiamo soprannominato “il segretario ideale”. E’ in questo ufficio che bisogna fermarsi per avere un’idea dei “rappresentati”. Nell’ufficio privato del Console c’è meno folla e c’è, sul tavolo, la corrispondenza ministeriale nelle inevitabili buste gialle che vi riportano così viva alla mente l’atmosfera di palazzo Braschi e della Consulta. Dall’altro lato della stanza centrale in un altro ufficio il vice-console vice-presiede ai destini della Piccola Italia. In tutti e tre gli uffici, caratteristicamente italiana la buona e cordiale accoglienza. La nota comica nel Consolato ce la mette quello che anche in un Consolato d’Italia si chiama americanamente l’”office boy”: un salernitano di quattordici anni che risponde al nome di Luigi nonché ai vari aggettivi di cui alla superiore autorità può parer conveniente gratificarlo; provvisto di un marcatissimo accento meridionale e di una chioma accuratamente spartita all’americana; ostinatamente, cocciutamente serio nonostante le più gravi provocazioni all’ilarità: tanto serio lui, e tanto compreso della sua dignità di “boy” del Consolato di S.M. il Re d’Italia a Boston, che finiamo col riderne tutti, compreso il console, di gran cuore.

Disperse per tutti i suoi lati entro i suoi limiti, lungo Hanover St., intorno a North Square, attraverso Fleet Street, la Piccola Italia ha le sue scuole, le sue chiese, le sue banche, i suoi istituti di beneficenza, perfino i suoi teatri; e, s’intende, le sue trattorie. Famose queste, per gli spaghetti e il Chianti, anche nelle regioni giornalistiche ed editoriali di Washington Street, d’onde ogni tanto scenda in Italia gente che non disconosce i meriti del pollo alla diavola e del Nebbiolo spumante. C’è nel mondo letterario di Boston una Bohême elegante e geniale che scopre inevitabilmente quel che c’è di buono all’estero. Così ha scoperto che per andare in Italia si può passare per la Cina ad osservarvi i “joss” o divinità indigene, e bere a un piccolo “restaurant” dai tavoli e dal soffitto di legno intarsiato, una o più di quelle tasse di thé che si prepara capovolgendo semplicemente la tazza, di forma speciale, e si beve senza zucchero, senza latte e senza limone, e del quale è pessimo il gusto immediato e dolcissima la traccia sul profumo di rose e dolcezza di viole. Oltre il thé, che non costa poi molto, ha generalmente il divertimento puramente gratuito di una tavolata di cinesi che mangiano riso e costolette colle rituali “chop-sticks” o bastoncini d’ebano che servono loro da forchette e da cucchiai: e si può portar via il “menù” bilingue, su cui s’insegue una sfilza di nomi esotici. Anche si può entrar e passare una mezz’ora in uno dei “bazars” dove si trova di tutto, da un bulbo di giacinto fresco a un gatto di cartapesta, da una scimia d’avorio a uno scialle di seta, da un “gong” e da un “tam-tam”, per tutte le variazioni dei toni e di colori, ad un mostro di bronzo dorato sogghignante il suo dispregio ereditario per le nuove cose e gli occidentali in ispecie, razza irriverente che quando passa per le vie popolate dagli “heathen chinees” muore dalla voglia di tirare tre o quattro dozzine di codini.

Ed ecco che passa un automobile, o un tram elettrico, a mettere un po’ d’America tra la Cina e l’Italia, e si arriva al “New Italy” o al “Venice” a ora di pranzo. Un cameriere più o meno nazionale, in una saletta che potrebbe appartenere a un qualunque albergo di provincia in Italia vi … è un patrio “vermouth” , e si pranza alla italiana, senza americanizzazioni troppo evidenti, se si è avuto cura di ordinare le portate, e specialmente gli spaghetti, in buona e chiara lingua italiana (non giurerei che non potesse riuscir opportuna l’aggiunta di qualche interiezione toscana o romana, per dar più forza al discorso) evitando così il pericolo di dover mangiare , anzi di non poter mangiare, degli spaghetti ormai naturalizzati americani. Poiché l’americano non capisceLittle Italy a New York e se va di questo passo non capirà mai la vera natura degli spaghetti: anzi lo spaghetto, essendoché gli spaghetti nazionali sono considerati qui in America come un cibo collettivo, e si dice spaghetti come si dice grano, farina, cioccolata, ecc. E si mangia lo “spaghetti” come i “macaroni” (e pare impossibile che non abbiano ancora imparato a dire maccheroni) ad uso patate lesse o fagiolini colla carne. C’è un conforto ed è che, alla fine di pranzo, nella Piccola Italia è perfettamente “correct” alzare il calice di Nebbiolo spumante alla salute di tutti gli astemi e all’infamia di tutte le cuoche della Nuova Inghilterra, inneggiando alla patria del Nebbiolo medesimo e degli spaghetti sempre lodati, anche al singolare.

Dalla piccola Italia, prendendo all’Adams Square o lì presso la ferrovia sotterranea, si raggiunge in un batter d’occhio il cuore della Boston elegante ed astemia, e, comodamente seduti in una poltrona del “Tremont” o del “Colonial”, si può ammirare l’attrice più in voga o criticare il più recente successo della stagione. Dopo il teatro, una consuetudine lodevolissima consiglia, se non esige, di convocare la seduta alle “German rooms” del “Touraine” il grande “caravansérail” bostoniano, in cui le indimenticabili ostriche americane ed il “Cobster” a la “Newburgh” ci riportano dove siamo realmente, a quattromila miglia dall’Italia. Si può anche ivi indugere, all’insidioso Lieo, ma bisogna aver cura di giungervi o anche meglio aver avuto cura di spedire un distaccamento a fare la opportuna requisizione, prima delle undici e mezzo, ora in cui la temperanza americana giudica che il libero cittadino non debba più spogliare sull’orlo delle bottiglie la sanguigna cera, come dicevano i puristi del settecento. Un’altra attrazione della Piccola Italia: si può andare a veder giocare a bocce nel cortile di un’osteria, chi avesse la malinconia di rievocare fra quattro mura di dodici piani l’una, uno spazio largo dieci palmi, triste e fuligginoso, uno di quei soleggiati pallai delle osterie toscane, aperti al vento e cinti da pergole e d’alberelli, o la spianata della “Villetta”, su al Gianicolo, dove le bocce sono il completamento naturale del biondo vino de li castelli e dei carciofini romaneschi.

Si può andare a comprare una maschera di Dante o un minuscolo Apollo di Belvedere da un figuraio lucchese che sta verso l’”East Boston Ferry” all’esrtemità ultima della “Esast End”, Durante una gita fotografica ci capitò un giorno in incognito l’Italia ufficiale a fare degli acquisti. Quanto all’Italia non ufficiale, rappresentata dalla sottoscritta, invece dei capolavori classici comprò dei gatti e dei conigli di gesso, ma ciò non importa alla storia. I lucchesi stavano tranquillamente lavorando al primo piano, dove salimmo a scovarli, secondo le “directions”affisse in inglese sulla porta del magazzino a terreno. La faccia dei bravi artisti si può meglio immaginare che descrivere. Tre italiani, fra cui una signora, d’aspetto e di vestire tali, che non si sarebbe disconvenuto ad una fermata pomeridiana da Aragno o da Latour, li all’”East Boston Ferry”, nel magazzino di un figuraio lucchese,rappresentavano la patria condegnamente, non c’è che dire, oltre al proteggere come si conviene alle classi più abbienti e più colte, lo sviluppo delle industrie nazionali.

Ma l’episodio più divertente della giornata se lo godette uno dei tre, quando gli altri due, piantandosi con due macchine fotografiche davanti alla scuola di “Moon Street”, all’ora dell’uscita degli alunni, si radunarono intorno in un batter d’occhio, li nel cuore della Picola Italia, tre quarti delle speranze della medesima. Tutti capirono in un baleno che quella era un’occasione incomparabile di tramandarsi ai posteri sui nostri Eastman e sulle nostre Lumiere, e la folla dei ragazzi si fece così fitta in un momento che a colui che desiderava fissar l’attimo fuggente, toccò arringarla dall’alto d’una scalinata, come dicesi facesse Menenio Agrippa dal Monte Sacro. L’entusiasmo popolare non ebbe limiti quando io rinunziai alle gioie di fotografare per quelle d’essere fotografata, e, acchiapati due dei più piccoli per la collottola, mi feci centro di un gruppo, trionfale come metope classica. Davanti alla Cushman School, dopo la lezione, i ragazzi si radunarono sulla grande spianata coperta di neve, e li strisciano, pattinano, fanno a capriole e a pugni secondo l’occasione. Nuovi gruppi fotografici e nuove esplosioni di entusiasmo. Se non che, migliore artista forse, ma diplomatico molto peggiore del “segretario ideale”, invece del “boys” di prammatica, adoperai il più giocondo e meno parlamentare “Kids”, consigliando una diversa disposizione di gruppi…

- “Sa-a-a-a-y, what she called us?

Salvai la situazione con un lampo di genio:

- “Let’s cheer, boys, let’s cheer!

Invitare un ragazzo, sia pure della Piccola Italia, a gridare quell’”hooray” che è l’”urrà cosacco americanizzato, espressione diretta della forza e dell’allegria Americana, è ottenere immediatamente una risposta tonante ed entusiasta, che spazza via qualsiasi altra pur gravissima preoccupazione. L’”hooray” tuonò: “Oh, she’s all right! Hooray! Hooray!”. Durante il primo scattarono le Kodak; e gli echi del terzo “cheer” svanivano appena nell’aria gelata quando noi svoltavamo giù per Salem Street verso la città israelita.

Amy A. Bernardy

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