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In alto: la rete ferroviaria italiana all'indomani dell'unificazione politica della penisola ;
In basso: locomotiva a vapore a scartamento ridotto.

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Terzaclasse.it > Le Storie dell'Italia liberale > Le ferrovie nell'Italia liberale (1861-1921)

Le ferrovie nell'Italia liberale.

Gli inizi

Rete ferroviaria nell'Italia postunitaria All'alba del 17 marzo 1861, giorno in cui fu sancita l'unità d'Italia con la proclamazione di Vittorio Emanuele Re d'Italia, il nuovo stato si ritrovò con una rete ferroviaria che si estendeva per poco più di 2000 chilometri ma che ancora non collegava tutte le regioni della penisola. La ferrovia era sviluppata soprattutto al nord del paese dove erano in esercizio poco più di 1300 chilometri di linee, che sulle direttive Torino-Venezia e Milano-Bologna, univano i principali centri urbani e i più importanti poli industriali dell'Italia settentrionale.

Al centro del paese, l'eredità lasciata dagli stati preunitari era costituita dai 257 km di ferrovie del Granducato di Toscana; dai 100 km in esercizio nell'ex Stato Pontificio dove, tuttavia, erano in via di realizzazione altri 300 km di tracciato tra Bologna e Porretta e tra Bologna ed Ancona. Completavano la rete del Regno d'Italia i 99 km provenienti dal ex Regno borbonico, mentre la Sicilia e la Sardegna erano ancora del tutto sprovviste di linee ferrate (solo nel 1863 in Sicilia fu inaugurata la tratta Palermo-Bagheria di soli 13,377 km). Dal punto di vista amministrativo le ferrovie dell'Italia postunitaria vedevano la partecipazione di una moltitudine di soggetti gestori: accanto allo Stato che era il diretto proprietario del 18% di tratte di cui curava anche la gestione (provenienti soprattutto dall'ex Regno di Piemonte e Sardegna) il resto delle linee era di proprietà privata.

La maggior parte di esse erano controllate dalla Società delle Strade Ferrate della Lombardia e dell’Italia centrale; dalla Società Toscana, dalla Società Romana e dalla Società Strade Ferrate meridionali. Il resto era suddiviso in brevi tronchi appartenenti a diverse “piccole” società dell'Italia settentrionale. Ben presto, però, ci si rese conto che una tale nebulosa di soggetti proprietari e di enti gestori non consentiva uno sviluppo organico della rete ferroviaria tale che potesse essere all'altezza del nuovo stato unitario.

L'epoca delle concessioni e delle convenzioni

Locomotiva a vapore Nel 1865 l'allora ministro dei Lavori pubblici Stefano Jacini, con il sostanziale aiuto del ministro delle Finanze Quintino Sella, decise di presentare una legge (L. 2279 del 14 maggio 1865) per mezzo della quale lo Stato si proponeva di dare un nuovo impulso al sistema ferroviario del paese. La legge stabiliva che, attraverso il sistema delle concessioni, la rete sarebbe stata riorganizzata grazie ad una nuova suddivisione delle tratte, più razionale. La “nuova” rete sarebbe stata, poi, gestita da solo cinque nuove società che avevano, tra l'altro, il compito di perseguire la realizzazione di un sistema omogeneo. Le cinque società nate dalla legge Jacini erano: La Società per le strade ferrate dell'alta Italia che si vide assegnate, tra linee in esercizio, in costruzione e in progetto, 2453 km di ferrovie. La Società per le strade ferrate romane, la cui area di competenza comprendeva il Lazio, le Marche e l'Umbria, con 2328 km dei quali quasi la metà ancora da realizzare; la Società Vittorio Emanuele e la Società per le strade ferrate meridionali che avrebbero operato nel mezzogiorno con oltre 3000 km di ferrovie gran parte delle quali ancora da costruire. Infine, la legge Jacini includeva anche la Compagnia Reale delle Ferrovie sarde con soli 414 km di strade ferrate che, come si evince dalla ragione sociale operava esclusivamente in Sardegna con linee a scartamento ridotto.

Contrariamente a quello che si erano auspicati i relatori della legge del 1865, anche il sistema delle concessioni entrò ben presto in crisi: già a partire dal 1868, e poi nel 1870, lo stato si vide costretto ad intervenire con apposita legislazione per rifinanziare la Società Strade Ferrate Romane e la Società Vittorio Emanuele che erano giunte sull'orlo del dissesto finanziario. La crisi economica delle due società era dovuta agli eccessivi oneri che si erano resi necessari al completamento delle infrastrutture (ricordiamo che la Società Strade Ferrate Romane doveva ancora costruire più di 1000 km di linea) e alla scarsa redditività di alcune tratte da esse gestite. Negli anni successivi si giunse, comunque, al completamento della rete prevista dalla legge del 1865 (che raggiunse gli oltre 6000 km nel 1871) e si diede avvio alla realizzazione del traforo del San Gottardo. L'opera, di vitale importanza per i collegamenti con il nord Europa, ebbe inizio nel 1872 per terminare nel 1881. La galleria era lunga 14,984 metri e, nonostante fosse scavata per buona parte in territorio svizzero, l'Italia ebbe un ruolo preminente nelle fasi di ideazione, progettazione e realizzazione. Non di meno fu l'apporto finanziario: il Regno d'Italia vi contribuì con 58 milioni di lire contro i 31 milioni della Svizzera e i 30 milioni della Germania. Nel 1873 (convenzione 17 novembre 1873) lo stato si vide costretto a riscattare la rete della Società per le Strade Ferrate Romane che si era trovata di nuovo sull'orlo della bancarotta e lo stesso fece l'anno seguente, nel 1874 (convenzione 22 aprile 1874), con la Società delle Strade Ferrate Meridionali. Le continue difficoltà finanziarie delle concessionarie e la conseguente necessità di mettere mano al portafogli pubblico fece nascere nel paese un ampio dibattito politico e culturale sul destino delle ferrovie.

Le discussioni si concretizzarono nel 1876 allorquando venne presentato da Marco Minghetti e dal ministro ai Lavori pubblici Luigi Spaventa un disegno di legge (9 marzo 1876) che proponeva la nazionalizzazione della rete ferroviaria italiana. Il momento scelto dai due relatori non era però favorevole: Lo stato Unitario non era ancora pronto a sostenere il peso economico della nazionalizzazione, ma anche la società civile non era (ancora) disposta ad accettare un intervento pubblico così importante nelle questioni economiche del paese. Il rifiuto della nazionalizzazione contribuì in modo sostanziale alla crisi della Destra Storica con le dimissioni del governo Minghetti (Minghetti II – dal 10 luglio 1873 al 25 marzo 1876). La crisi si formalizzò con la successiva salita al potere della Sinistra Storica con il primo governo Depretis (dal 25 marzo 1876). I problemi che assillavano le ferrovie italiani non erano, tuttavia, risolti: al seguito di nuove crisi si decise di istituire, nel 1878, una commissione parlamentare di inchiesta sulle ferrovie. L'organo parlamentare aveva il compito di analizzare i problemi strutturali della rete e di proporre le future linee di sviluppo.

La Commissione lavorò per tre anni e chiuse i lavori nel 1881 senza che le sue conclusioni trovassero immediata applicazione. Solo nel 1885 ci si ricordò dello studio parlamentare. Alcune sue indicazioni conclusive vennero prese in considerazione allorquando fu stipulata, con legge n. 3048 del 27 aprile 1885, una nuova serie di convenzioni, della durata di 60 anni (ma rivedibili alla scadenza dei 20 anni), tra lo Stato e tre nuove società che erano sorte dalle ceneri delle precedenti gestioni. Il riordino della rete ferroviaria prevedeva la suddivisione della rete in tre ambiti di competenza, caratterizzati da un chiaro sviluppo lungitudinale, ognuno dei quali assegnato ad una delle società convenzionate. Si trattava della Società Rete Adriatica (ex Società italiana per le strade ferrate meridionali) con 4131 km di rete (che, come recita la regione sociale, avrebbe avuto in gestione le linee adriatiche oltre quelle dell'Italia settentrionale orientale) ; la Società Strade ferrate del Mediterraneo con 4046 km relativi all'ambito tirrenico (compresa la Liguria) e la Società Strade ferrate della Sicilia con soli 597 km di tracciato. Nei successivi anni '80 ci fu un notevole incremento della rete soprattutto al sud. Lo sviluppo delle ferrovie italiane portò anche all'esigenza di realizzare un nuovo traforo alpino. Proprio in quegli anni si intraprese lo studio di fattibilità relativo al traforo del Sempione la cui effettiva realizzazione fu, tuttavia, portata a compimento solo nel 1905 (con l'inizio dei lavori nel 1898 per una lunghezza di 19,730 metri).

La nazionalizzazione della rete

Allo scadere del dei primi venti anni indicati dalla legge sulle convenzioni, lo stato, grazie ad una nuova legislazione in materia (legge n. 137 del 22 aprile 1905), assunse l'esercizio di tutte le linee ferroviarie del paese a partire dal 1° luglio 1905 (per uno sviluppo complessivo di 10,586 km) e con la successiva legge del 15 luglio del 1906 riscattò anche le restanti linee riconducibili alla società delle Ferrovie Meridionali (la Società italiana per le strade ferrate meridionali, Esercizio della Rete Adriatica). Il 1905 sancì anche la nascita di un nuovo ente gestore che prese il nome di Ferrovie dello Stato. Come era già successo al momento dell'unificazione nazionale, anche il nuovo Ente si trovò ad affrontare una fase di emergenza dovuta alla disparità di procedure, regolamenti, infrastrutture e, soprattutto, di materiale rotabile, che spesso versava in condizioni pietose a causa della marcata anzianità di locomotive e carrozze (che poteva arrivare anche a oltre 30 anni di esercizio). In pochi anni le Ferrovie dello Stato riuscirono a recuperare i ritardi tecnologici grazie all'acquisizione di nuovo materiale, all'adozione di apparati di segnalazione e sicurezza e all'estensione delle tratte elettrificate. Al termine della Prima Guerra Mondiale le FFSS incamerarono anche quella parte della rete dell'ex impero austriaco che ricadeva nei territori redenti (come si diceva allora: il Venezia-Giulia e Venezia Tridentina) per giungere (al 30 settembre 1920) a 15,667 chilometri di rete ferroviaria.

Bibliografia

Maggi S., “Le Ferrovie”, Il Mulino, Bologna, 2013.

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